“Come il sindacato può incidere sulla legge di bilancio”: l’intervento di Ivana Barbacci su Agenda Cisl di novembre

A poche ore di distanza dalla manifestazione con cui la CGIL accusava il governo di perseguire, con la legge di bilancio per il 2026, lo smantellamento dello stato sociale attraverso politiche di pesante taglio alla sanità, all’istruzione e ai trattamenti economici del mondo del lavoro, il direttore di un quotidiano certamente non annoverabile tra i simpatizzanti del governo in carica (La Stampa) ironizzava sul fatto che la premier Meloni, con questa finanziaria, avrebbe compiuto un totale dietro front rispetto a quanto affermato – e promesso – in campagna elettorale, allineandosi pienamente alle indicazioni e alle richieste dell’Europa nel compiere scelte – così scrive il direttore de La Stampa – “che avrebbe potuto fare, identiche, un premier di sinistra. O persino Mario Draghi”. Per decidere quale delle due “letture” sia più aderente alla realtà, conviene fare riferimento a quanto emerge da un’analisi puntuale di ciò che prevede il disegno di legge ora all’esame delle Camere, dove è approdato non senza tensioni e divisioni all’interno della stessa maggioranza, con alcuni nodi che sarà la discussione parlamentare a dover sciogliere.

Mi propongo di farlo in queste note, ma prima credo sia necessaria una riflessione su quanto dovrebbe distinguere, ragionando di una finanziaria, le valutazioni di natura sindacale da quelle di natura politica. Una distinzione su cui ultimamente mi capita spesso di tornare e che spiega molto del perché, da qualche tempo, sia così difficile mettere in atto, o anche solo a immaginare, azioni sindacali condotte unitariamente. Sul piano politico è comprensibile, direi quasi doveroso, che chi fa opposizione contesti le scelte del governo in carica, proponendo sé stesso come alternativa e sottolineando a tal fine la diversità degli obiettivi e la diversa qualità delle proposte con le quali intende raggiungerli, puntando a raccogliere su tutto ciò un consenso maggioritario in sede elettorale.

Ē del tutto normale che ciò accada, ritengo sia fisiologico in una democrazia dove sono i cittadini elettori a scegliere maggioranze e governi. Peraltro, varrebbe la pena, per chi fa opposizione, riflettere attentamente su quali siano le strategie più efficaci da mettere in campo per raggiungere il livello di consenso necessario a “rovesciare” i rapporti di forza e gli esiti elettorali. Mi pare del resto che una riflessione del genere sia da tempo in atto nell’ambito dello schieramento di centro sinistra, o perlomeno all’interno del suo maggior partito, dove non manca chi ne vorrebbe vedere accentuato il profilo riformista, attraverso una più puntuale definizione di obiettivi e strategie di governo, piuttosto che quello radicalmente oppositivo. Ben diverso è il piano su cui agisce un sindacato, che proprio per esercitare efficacemente il proprio ruolo di rappresentanza sociale ha il dovere (che è anche un suo preciso interesse) di confrontarsi con ogni governo in carica, a prescindere dal suo colore politico. Non per concedergli o negargli la fiducia, compito che esula dalle sue prerogative, ma per incidere quanto più possibile sulle sue scelte, ben sapendo che queste devono tradursi in atti di natura legislativa su cui è sovrano il Parlamento.

In concreto, e avvicinandomi così a quell’esame puntuale dei contenuti della finanziaria di cui dicevo prima: quando i sindacati rivendicano – come sempre avvenuto – un confronto col Governo sulla legge di bilancio, dovrebbero focalizzare l’attenzione su ciò che in quel provvedimento può e deve essere cambiato, con la consapevolezza di svolgere di fatto un ruolo emendativo e di non avere il potere di proporre una propria manovra finanziaria alternativa. È questo ciò che significa praticare il confronto di merito, e non implica alcunché sotto il profilo della distanza o vicinanza allo schieramento di governo. Si tratta, per la CISL, di una scelta fondativa, che rimane un tratto irrinunciabile della propria identità.

Entro ora più nello specifico dei contenuti del disegno di legge, cercando di metterne in evidenza, com’è sempre stata consuetudine per la CISL (e sottolineo sempre), luci e ombre. Parto anzi da quest’ultime, anche perché alcune riguardano direttamente il nostro comparto. Mancano infatti risorse specifiche da destinare al contratto di Scuola, Università e Ricerca. Siamo alle prese con un difficile rinnovo contrattuale, servirebbero “risorse fresche” per agevolare la conclusione delle trattative e permettere di avviare subito il tavolo negoziale per il triennio successivo. Un obiettivo che riteniamo fondamentale per la tutela di retribuzioni, che ogni ritardo nei rinnovi contrattuali rende più difficile.

Benché il temuto taglio agli organici in presenza di un massiccio calo demografico sia per il momento scongiurato, non ci sono scelte significative di investimento che consentano di delineare, in prospettiva, percorsi di forte valorizzazione del lavoro nella scuola, da perseguire con i prossimi rinnovi contrattuali, per i quali rivendichiamo l’immediato avvio del confronto una volta concluso, mi auguro in tempi brevissimi, quello del 2022/24.

Si pone invece l’accento, ancora una volta, sul contenimento delle spese. È il caso, per esempio, delle disposizioni che impongono di coprire le supplenze fino a 10 giorni con personale dell’organico dell’autonomia. Ma ci vede in dissenso anche la decisione di rendere annuale e non più triennale l’organico del personale ATA, a scapito della possibilità delle scuole di programmare i carichi di lavoro demandati a quel personale, negando nei fatti la centralità della sfida amministrativa (come quella tecnica e manutentiva) che le istituzioni scolastiche devono affrontare per affermare una reale autonomia. Il tutto, poi, mentre l’Amministrazione centrale tende a spogliarsi di compiti, delegati sempre più alle scuole, i cui uffici, sono affidati a personale la cui professionalità, in una condizione di lavoro molto spesso precaria, stenta a trovare adeguato supporto formativo.

Manca poi un intervento che contrasti la precarietà rimuovendo i vincoli alle assunzioni oggi esistenti per il personale ATA e favorendo la stabilizzazione del personale docente, ATA e educativo su tutti i posti vacanti. Su questi aspetti, che investono direttamente la nostra categoria, siamo pronti a mettere in atto ogni iniziativa che possa sostenere la nostra richiesta di sostanziose modifiche al testo in discussione nel confronto che in-tendiamo aprire con governo e forze politiche. Su un piano più generale, e in linea con le posizioni espresse dalla nostra confederazione, diciamo che non va assolutamente bene la rottamazione dei debiti verso il fisco: in un Paese afflitto dalla piaga di una gigantesca evasione fiscale, è inaccettabile un intervento che non soltanto certifica la rinuncia a reperire risorse considerevoli, ma si traduce di fatto in un incentivo a evadere, sapendo che prima o poi il debito fiscale sarà cancellato.

Irricevibile la retorica della rottamazione a beneficio di chi non si trova più nelle condizioni di poter pagare: come ha osservato Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici, in un articolo di due settimane fa sul Corriere della Sera, le cartelle esattoriali vengono emesse sul reddito percepito, non certo immaginario, e, in ogni caso, i mancati pagamenti si determinano sia in fase di congiuntura negativa che in quella espansiva. Non sono, quindi, le circostanze a determinare i mancati pagamenti. Passando invece alle luci, cioè agli aspetti della manovra che valutiamo positivamente, tra questi vi è senz’altro la prevista diminuzione dell’aliquota IRPEF (dal 35% al 33%) per i redditi compresi tra 28.000 euro e 50.000 euro.

Il beneficio, che riguarda le retribuzioni dei lavoratori che appartengono al cosiddetto ceto medio (l’area su cui grava la maggior parte delle imposte percepite dallo Stato), può giungere fino a 440 euro annui. Per gli scaglioni superiori ai 50.000 euro annui, il beneficio è compensato da mi-sure che progressivamente lo attenuano, fino ad azzerarlo per i redditi ol-tre i 200.000 euro annui.

Altre agevolazioni fiscali sono previste sulle retribuzioni accessorie del Pubblico Impiego: ne deriva, anche in questo caso, un aumento del reddito disponibile, variabile a seconda del livello individuale di tassazione globale (la minor tassazione può incidere nella misura dell’8% per coloro chi ha redditi fino a 28.000 euro arrivando al 20% per coloro chi ha un reddito fino a 50.000 euro annui).

Altra misura di interesse per i pubblici dipendenti è la destinazione di risorse per ridurre di tre mesi i tempi oggi previsti per l’erogazione del trattamento di fine servizio spettante a chi va in pensione per raggiunti limiti di età. Si tratta di un primo passo per sanare un vulnus giuridico e politico alla parità di trattamento tra settore pubblico e privato, dove i tempi di attesa per la liquidazione sono mediamente di 60 giorni. I tempi molto più lunghi per i pubblici dipendenti furono introdotti, come è noto, dal governo Monti, nel quadro della difficile situazione finanziaria allora vigente (periodo 2011-2013).

Bene, dunque, che si avvii un percorso per superare una così evidente disparità di trattamento. Bene anche l’estensione del congedo parentale fino ai 14 anni di età del bambino, in luogo dei 12 attuali, così come lo stanziamento di fondi a favore dei caregiver familiari. Lo stesso dicasi per la proroga, anche per il 2026, del bonus mamme, che vale 60 euro mensili per le mamme di due figli, fino al decimo anno di età del secondo, e della stessa somma alle mamme con più di due figli, fino al diciottesimo anno dell’ultimo. In chiaroscuro il giudizio in materia di pensioni: bene la proroga dell’APE sociale, ma fallisce la neutralizzazione dell’innalzamento di 3 mesi dell’età di pensionamento, legato all’aumento dell’aspettativa di vita. Il ritardo nell’accesso alla pensione non viene cancellato, ma solo dilazionato e distribuito su due anni (un mese in più nel 2027 e due nel 2028), a dimostrazione della distanza che separa quasi sempre le promesse elettorali dalla realtà dei fatti.

Un cenno a parte merita la questione Sanità, spesso al centro del dibattito, ma verrebbe da dire della rissa politica quotidiana. Da un lato, il governo vanta l’aumento delle risorse stanziate per il settore, dall’altro l’opposizione obietta che, in percentuale del PIL, non saremmo di fronte a un aumento, ma a una diminuzione. Cito ancora Carlo Cottarelli, quando osserva che lo stanziamento di 2,7 mld aggiuntivi porta il rapporto spesa sanitaria su PIL al 6,5 – 6,6%, quindi “su livelli un po’ più alti di quel 6,4% a cui lo aveva lasciato il centrosinistra prima della crisi Covid”, che si è poi consolidato negli anni successivi alla pandemia. Saremmo dunque in presenza non di un pesante taglio, ma casomai di una sia pur lieve ripresa, ancorché non sufficiente a risolvere le enormi criticità di un sistema sanitario nazionale spesso in affanno rispetto al fabbisogno di una società che appare, oltretutto, in costante invecchiamento: una ragione in più per rivendicare politiche di forte investimento su quello che rimane un pilastro fondamentale del sistema di welfare. Obiettivo che la CISL considera centrale e prioritario nelle proprie rivendicazioni.

In conclusione: ricercare e valorizzare sedi in cui sviluppare un’azione di confronto non è solo un dovere, per il sindacato, ma rappresenta un preciso interesse rispetto alla necessità di offrire a lavoratrici e lavoratori non facili promesse di un futuro migliore (compito che compete a chi agisce sul versante politico) ma risultati che possano essere immediatamente e concretamente apprezzabili. Sarà questo il senso e il tono delle iniziative che la CISL e la CISL Scuola metteranno in atto nelle prossime settimane.